Brutti, sporchi e cattivi, il racconto della realtà psichiatrica di oggi

Gli approfondimenti pubblicati da L’Espresso la scorsa primavera sulla situazione manicomiale e carceraria sembrano portare indietro le lancette dell’orologio di 50 anni, come se nulla sia mai cambiato. La realtà dei detenuti e dei pazienti psichiatrici in molte strutture carcerarie è ancora estremamente grave ma dei segnali positivi, seppur pochi rispetto alla situazione nazionale, esistono. L’esempio del carcere di Torino (con la Buccoliero e il più basso dato in Italia di recidiva) o quello di Volterra, con il progetto trentennale di teatro di Armando Punzo, così come diverse realtà terapeutiche diffuse in varie regioni con medici e personale competente e motivato dimostrano invece un lavoro concreto verso la cura e i processi di riabilitazione. Eppure nella narrazione di importanti fotografi e giornalisti tutto questo sembra assente. A motivazione di questa scelta c’è sempre l’idea della denuncia e di una crudezza necessaria per spiazzare un pubblico altrimenti distratto, ma qualcosa sembra stonare. Per capire meglio, e reagire alla sensazione di malessere che si prova sfogliando le pagine di questi giornali, sono andato ad approfondire la questione con esperti in ambito medico e fotografico.

La Dottoressa Maria Rosaria Bianchi psichiatra, psicoterapeuta, autrice del volume “Un inconsapevole impossibile amore”, per dieci anni è stata dirigente medico psichiatra di OPG tra cui quello di Aversa.

Lei che queste realtà le conosce bene, cosa ha provato nel vedere questo servizio?

Iniziamo dicendo che non è vero che tutto è fermo agli anni ’60 ma queste foto ci colpiscono ancora di più. Sono servizi che trasmettono questa sensazione drammatica, come a dire che quando “il diavolo si esprime” va contenuto e dobbiamo solo tenerlo lontano e tenerci lontani. Sono tutte foto di espiazione, di pena, anche nel linguaggio, portano molto poco lontano. Al tempo stesso purtroppo certe situazioni esistono ancora. Alla fine non si ha il coraggio, perché ancora non si hanno i concetti di una cura possibile, e si mostra una cronicità che viene lasciata a se stessa. Sicuramente per un addetto ai lavori sono forti ma non più veritiere. Si dovrebbe avere pero il coraggio di rompere questo silenzio sulla cura della malattia mentale per una diagnosi precoce, e ancora di più su una prevenzione. Noi psichiatri oggi sappiamo tante cose ma la società in molte situazioni è più avanti della politica, e c’è ancora troppa credenza e poco pensiero scientifico e umanistico.

Io spesso mi reco in Calabria dove lavoro e mi confronto con colleghi bravissimi che si spendono tanto all’interno di una Rems a Sant’Agata di Epiro. Purtroppo ci sono dei problemi atavici che mettono noi psichiatri di fronte a uno sconforto perché è come se noi sapessimo cosa si deve fare ma purtroppo non ne abbiamo le condizioni spesso per farlo, e questa è una cosa molto antica, o comunque dalla legge 180 in poi. Il vero “peccato originale” è l’idea del peccato originale dell’essere umano che deve essere contenuto ed isolato. Se da una parte c’è una grande novità che si concretizza nel lavoro di persone motivate, dall’altra è come se non si riuscisse a fare veramente questa svolta per fare concretamente quello che si deve fare.

Cosa significa ancora oggi limitare il problema psichiatrico ad una visione spaziale escludendo la clinica?

Nel 2010 ai tempi delle inchieste sugli OPG vidi in televisione delle immagini ancora peggiori di quelle dell’Espresso; io all’epoca avevo già lasciato il mio lavoro ad Aversa, e in un servizio Ferraro, l’allora direttore intervistato diceva: “Ma cosa volete fare, ci hanno decimato, 8 operatori con 320 ore mensili per 600 pazienti”, significava un’ora al mese per paziente. Quindi il nulla! Io ho vissuto questa tragedia. Ecco perché l’immagine de L’Espresso è grave perché è un’immagine che seppure va a toccare una denuncia importante, non fa vedere quello che nel frattempo è successo, e anche il prezzo che si è pagato perché tutto questo succedesse. All’epoca questi servizi ebbero un certo valore e la commissione Marino sembrava che dovesse stanziare dei finanziamenti… non fu così perché i fondi andarono agli armamenti che al momento erano una priorità. Si tratta quindi di un tema difficile da affrontare, perché anche se c’è tanta cultura nuova attualmente, anche sociale e a livello internazionale, poi invece c’è una rete politica che non si muove.

Quindi nelle foto de L’Espresso una parziale ragione c’è?

Le foto mostrano una realtà dei fatti, questa è una realtà ma non è una verità.

Ma come mai secondo lei in queste immagini, che dovrebbero mostrare delle carenze e una mala gestione di una situazione sanitaria, non c’è mai la presenza del personale? Da un punto di vista giornalistico questa storia risulta monca, addirittura scorretta…

Allora andiamo agli autori; queste sono immagini di impatto, per cui invece di far vedere il gruppo che lavora fai vedere in matto che urla con le sbarre dietro, si batte cassa in questa maniera, perché il lavoro di tanti non fa notizia. Ma, ancora peggio, quello che manca è un discorso sulla cura; bisogna fare un discorso storico sui manicomi, un tempo erano quello che si poteva avere, oggi anche nelle Rems si deve pretendere di più. Noi psichiatri lo sappiamo bene quello che si potrebbe fare per creare le giuste relazioni terapeutiche, ambienti giusti ecc, ma c’è una politica fallimentare e fallace, ed ecco che un grido come quello de L’Espresso non possiamo dire che sia completamente falso.

Queste urla, allora, dovrebbero essere dei medici, più che dei malati?

Sì! Certi servizi e certe foto, non parlano minimamente di una cura possibile, ed è questa la cosa più grave, perché mostrano solo tanta cronicità. Io nel mio lavoro ad Aversa non ho mai pensato di guarire qualcuno di questi casi di malati cronici, ma di portarli a una vita dignitosa, insieme al personale infermieristico e di polizia penitenziaria, quello sì. Però va detto anche che oggi, nelle Rems, se non si trova il magistrato illuminato ci finisce un ragazzo di 22 anni che ha fatto una crisi psicotica e che invece è assolutamente recuperabile. Inoltre in questi servizi viene anche negata la storia del paziente e si costruisce un’ulteriore confusione, questo è il vero dramma, perché ci viene mostrata solo una cronicità dimenticata, che tutti vogliono dimenticare, perché sono immagini di grave impotenza.

Ma come si fa a fotografare la patologia mentale andando anche oltre la sintomatologia?

Ora usciamo anche dalla poesia. Queste sono foto dove tutte è già accaduto, e mostrano un grande fallimento della psichiatria, oltre che della società e oggi questo è ingiusto perché invece c’è stato tanto coraggio nella ricerca della malattia mentale e della visione del malato. Forse la cosa peggiore nella storia Basagliana è stato il detto che da vicino nessuno di noi è normale, per cui siamo tutti malati, levando quella sensibilità di base che è fondamentale per cogliere un momento di crisi, un’assenza, per cui se invece questo esiste c’è la possibilità di fare qualcosa precocemente. Io penso che la psichiatria è per eccellenza la branca della medicina della prevenzione, altrimenti si va a finire in questi reportage che sono terrifici, perché presentano un destino di ineluttabile cronicità. 

Questo è il grande dramma! Io non ho paura di parlare di malattia, quando normalmente si parla di disagio e di disfunzionalità, ma in tutta la medicina esistono quadri complessi e quadri semplici, che se non vengono seguiti e curati si complicano ulteriormente. In questi giorni mi colpiva una collega che lavora in uno sportello d’ascolto in una scuola che mi diceva che prima i ragazzi avevano molta più difficoltà e si vergognavano ad avvicinarsi, mentre ora lo fanno. Oggi anche a causa di queste immagini, c’è ancora tanta difficoltà nel nominare la malattia mentale ma le cose si muovono. Lo dico sempre ai miei pazienti, maschi soprattutto, che vengono a studio: Quand’è che si avrà il coraggio di venire a studio senza il torcicollo che viene nel guardarsi indietro per vedere se qualcuno c’è qualcuno che li sta osservando mentre entrano nello studio; perché non c’è niente di male, quelli  sono veramente momenti importantissimi di intelligenza perché se una persona non si sente bene perché dovrebbe vergognarsi di andare a vedere se può fare qualcosa?

Forse più che fotografare c’è il cogliere un inizio che non deve sporcarsi e aggravarsi più di tanto e chiaramente quanto prima si interviene tanto prima si fa; e bisognerebbe avere il coraggio di non fotografa soltanto la cronicità ma di parlare della prevenzione, nelle scuole o negli studi di psicoterapia dove la patologia non è una cronicità e quindi è affrontabile, allora lì si che ha senso di parlare di una cura per la guarigione.     

La Dottoressa Viviana Censi, psichiatra e psicoterapeuta da alcuni anni lavora nel servizio pubblico occupandosi di malattia mentale ed avendo a che fare con persone che hanno commesso reati anche gravi.

Che sensazione le dà vedere questo tipo di immagini sui media?

La prima cosa che mi viene in mente è che sono delle immagini anacronistiche; appartengono a un passato ampiamente superato e non raccontano la verità della situazione attuale. La segregazione, il degrado e l’abbandono non fanno più parte del trattamento che viene riservato ai pazienti psichiatrici, neanche agli autori di reato, che anzi con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’apertura delle REMS (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza) godono di diritti prima violati, a partire dal fatto che queste strutture sono a gestione di esclusiva competenza sanitaria (infatti dipendono dalle ASL e non dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ed erogano trattamenti terapeutico-riabilitativi e socio-riabilitativi.

Nella maggior parte di questi servizi sembra sempre essere assente il punto di vista degli operatori, ma non sarà che i veri “invisibili” in questa storia sono proprio i medici?

Infatti l’altro aspetto che mi preme sottolineare è che certe immagini risultano offensive oltre che verso i pazienti, anche e soprattutto verso tutti gli operatori sanitari che lavorano in prima linea nei servizi pubblici, spesso a rischio della propria incolumità, avendo a che fare con pazienti psicopatologicamente molto gravi, spesso violenti e che dal punto di vista della relazione terapeutica sono molto impegnativi. È necessario l’impegno costante di tutta l’equipe terapeutica costituita da psichiatra, psicologo, infermiere, OSS, assistente sociale e tecnico della riabilitazione psichiatrica per poter osservare, nel corso di mesi, lenti e graduali miglioramenti clinici.

Per questi narratori il problema della malattia mentale sembra essere sempre il luogo di cura o di contenzione, come se la questione da dirimere fosse restrizione si o no, libertà si o no.

Il dibattito in psichiatria, soprattutto in passato, si è ridotto alla disquisizione in merito ai luoghi di cura, se fosse opportuno o meno chiudere o aprire strutture, restringere o rendere liberi. Posso ipotizzare che entrambe le ideologie, restrittive o libertarie, finiscono per considerare il paziente psichiatrico semplicemente un diverso, a volte violento, per cui la questione starebbe solo nel decidere se restringerlo o meno. In una visione culturale che considera la malattia mentale uno dei possibili modi di essere, l’istituzione psichiatrica è vista come causa e aggravante della patologia. Più che criticare i luoghi, dove peraltro vengono erogate delle cure mediche, certa cultura dovrebbe interrogarsi sulle idee riguardo gli esseri umani che ancora oggi porta avanti, sulla loro validità attuale o piuttosto sulla loro nocività.

Forse è necessario un passo indietro per comprendere un “equivoco di fondo” che sovrappone il pazzo al ribelle, dove nasce questa confusione?

La confusione è secolare; il pazzo in qualche modo è un ribelle ma c’è ribellione e ribellione. Ribellarsi allo status quo, a dogmi incomprensibili, a sistemi politici dittatoriali e opprimenti è per lo più espressione di una validità dell’Io e rappresenta la legittima pretesa di condizioni di vita migliori e di veder realizzate le proprie esigenze. Lo stesso si può dire della sana ribellione adolescenziale, che diventa un’affermazione di identità del figlio rispetto ai genitori, per cui ci si dovrebbe preoccupare piuttosto quando non avviene. Invece ribellarsi alla propria condizione di “infelicità” recandosi in un supermercato e iniziando a sferrare coltellate a tutti coloro che sembrano felici è espressione della malattia mentale più grave. La vera ribellione è quella non violenta.

Senza la presentazione di una soluzione, o quanto meno una strada diversa o tentativo di ricerca, in che modo lo sguardo è in verità ambivalente per non dire reazionario?

Direi che senza proporre un proprio pensiero o una soluzione, lo sguardo di chi critica diviene disfattista, come se non ci fosse nulla da fare e le cose fossero immutabili. Questo non lo ritengo vero perché, torno a ripetere, svaluta tutto il lavoro nel quale tantissimi professionisti sono impegnati con risultati evidenti in termini clinici. A tal proposito posso raccontare che spesso in REMS accade, al termine del periodo obbligatorio per legge a cui i pazienti sono sottoposti, che essi quasi non se ne vogliano andare e comunque ci ringrazino per il tempo e le cure che gli abbiamo dedicato. Evidentemente è la qualità dei rapporti interumani a fare la differenza.

Il confronto prosegue con la dottoressa Maria Realacci, psicologa psicoterapeuta, che da oltre dieci anni lavora in una comunità terapeutica riabilitativa per giovani pazienti psichiatrici a Roma.   

“Senza Uscita” titola l’Espresso nel numero di maggio scorso. Dottoressa, come è possibile che dopo tanto tempo ancora si possa parlare in questo modo di certi temi?

Raccontare gli ultimi e rappresentarli “brutti sporchi e cattivi” non è solo una scelta “artistica” ma purtroppo un modo per proteggersi dalla paura della follia, della povertà, della delinquenza, un modo per tenere queste questioni fuori, lontane da noi.

Sono cose brutte e devono essere racconta in modo brutto.

Immagina un progetto fotografico bello in una struttura psichiatrica, non lo vorrebbe e capirebbe nessuno.

Una volta i malati erano internati nei manicomi che anche fisicamente li tenevano lontani, ma i manicomi e le prigioni continuiamo ad averle nella testa, ne abbiamo bisogno per proteggerci dalla nostra angoscia di affrontare mentalmente quello che ci fa paura.

Dobbiamo chiederci piuttosto se uno sguardo diverso lo possiamo tollerare.

Se ci pensi bene anche il servizio di Vogue sulla guerra in Ucraina fatto dalla Leibovitz non era un modo per negare l’atrocità di un conflitto ma una forma di provocazione; usare la bellezza per rendere ancora più evidente l’inaccettabilità di quello che sta accadendo.

La psichiatra sta attraversando un momento di stallo e va inserita in un discorso generale che la lega alle altre discipline; economia, sociologia, politica, arte ed è evidente una crisi di tutte queste discipline, ma ciò che è grave è la mancanza di idea di cura e affrontabilità della patologia mentale. Oggi mediamente si parla solo di riabilitazione, un termine molto abusato ma vuoto, che non significa nulla, se non l’idea di reinserire socialmente il paziente psichiatrico o il delinquente, ma il lavoro da fare è quello di comprendere e curare le realtà interne e profonde delle persone malate.

Ma a suo avviso si dovrebbe fare un distinguo tra malato e delinquente?

Si tratta comunque di una questione storicamente presente sia nell’ambito medico che legale fin dai tempi di Marco Aurelio.

Questa distinzione viene normalmente fatta dalla giurisprudenza rispetto al concetto di capacità di intendere e volere, ma sappiamo bene che ha numerose lacune. Va detto che la realtà attuale delle comunità psichiatriche e chiaramente quella delle rems, vede oggi la presenza anche di pazienti che possono aver commesso reati, ma si potrebbe dire che la pericolosità sia “interna” al mestiere della psicoterapia stessa e si diversifica in base ai livelli di violenza dei pazienti, che è prima di tutto psichica e talvolta anche fisica, auto o etero diretta. Fare psicoterapia significa strutturalmente, a differenza delle altre branche della medicina in cui il paziente per poter essere curato viene necessariamente più meno anestetizzato, avere a che fare con individui svegli e reattivi, la cui patologia viene curata nel rapporto terapeutico in cui è fondamentale percepire, comprendere e reagire, dinamizzandole, alle dimensioni distruttive del paziente.

Rispetto all’idea di “violenza”, sarebbe utile anche rivedere ciò che disse il magistrato Giovani Falcone, quando sosteneva che la prima radice di una situazione criminale si nasconde all’interno di certe famiglie e le loro dinamiche. Ci sono uomini che sono in carcere come mandanti di stragi, che hanno voluto e fatto in modo che altre persone uccidessero per loro conto decine di individui e che direttamente non hanno mai compiuto violenza su nessuno; rispetto a queste persone chiedersi che tipo di violenza agiscano costringe ad un salto di livello, perché se ci si ferma ad un pensiero cosciente la così detta “capacità di intendere e volere”, purtroppo per capire cosa sia una violenza psichica non è sufficiente.

Seguendo questo filo però si può arrivare a comprendere che di fondo la violenza e la malattia mentale non sono lontane e che la violenza, prima di essere agita, ha a monte una patologia del pensiero e degli affetti.

Ma tornando a questi reportage gli aspetti profondamente negativi sono da un lato la negazione di una patologia psichiatrica e conseguentemente della storia clinica dei pazienti, ed insieme a questo l’esclusione dei terapeuti e del personale sanitario. Il primo elemento tende a negare una pericolosità del detenuto/malato e le motivazioni per cui egli si trova in una situazione psichiatrica e/o detentiva, come se fosse stato misteriosamente catapultato per errore al suo interno a causa di una società violenta e contro le libertà individuali. Questo pensiero è dovuto a confusioni storiche e ideologiche ancora presenti, e al fatto che sia più semplice dare alla società la responsabilità di un malessere, piuttosto che andarla a ricercare nelle situazioni affettive di base e quindi nelle famiglie di provenienza dei malati, che sono diventati tali a causa di rapporti deludenti ai quali non sono stati in grado di reagire in modo sano e trasformativo. L’assenza dei medici, purtroppo, significa sostenere la non esistenza di una reale patologia mentale, e contemporaneamente di una dimensione violenta nel paziente psichiatrico, per un’atavica e strutturale idea che in fondo tutti gli esseri umani siano un po’ malati e cattivi. Questo pensiero è in realtà complice di ogni forma di potere coercitivo.

Ma tornando alle immagini ricordo le famose fotografie di un intervento chirurgico durato un’intera notte per un trapianto di cuore, eseguito in Polonia nel 1987 e pubblicate all’epoca sul National Geographic, in cui si vede un medico, il dott Religa in una sala operatoria che accanto al paziente operato “osserva il monitor che traccia i segni vitali del paziente. Vinto dalla stanchezza, si vede anche un collega assopito in un angolo”. E così viene una domanda: Come mai questo tipo di atto medico è così ben presente nella nostra cultura, nel nostro immaginario, a differenza di un atto medico in ambito psichico? Forse perché la psichiatria come cura della malattia della mente è qualcosa di ancora molto recente per essere accettato e compreso.

Però, forse, per trovare delle rappresentazioni veritiere e più profonde della patologia psichiatrica oltre l’evidenza sintomatologica di superficie, invece di guardare al lavoro fotografico bisogna andare a cercare nella cinematografia d’autore, a partire dai grandi registi come Hitchcock, Bergman, Lang, Bunuel, Siodmak.

Dopo il confronto con gli chi lavora in ambito medico sono andato ad approfondire con chi da anni studia la fotografia e la storia dell’arte, il fotografo, stampatore e docente di fotografia Andrea Calabresi.

Possiamo partire dall’uso del bianco e nero da parte di tutti questi fotografi?

Secondo me quello in realtà è più un dettaglio. Forse prima di tutto bisognerebbe capire perché vengono riproposte sempre le stesse immagini e partire dal fatto che questi sono lavori che vengono pubblicati, come a dire che la regola non scritta dell’informazione è che l’immagine deve confermare il pregiudizio del lettore, quindi non ci possiamo aspettare nell’ambito di quello che sarebbe la fotografia documentaria, veicolata dai mezzi main stream nulla contro il pre-giudizio letteralmente inteso; l’immagine deve confermare la tesi che esiste già. Esistono lavori diversi in cui l’immagine non conferma la tesi ed è fatta per capire il mondo ma non trovano spazio nei mezzi di comunicazione di massa, un esempio è quello di Chanarine in Israele. Il problema è che magari esistono lavori come questi, ma anche i giornali più indipendenti non hanno la forza per commissionarli e quindi ciò che normalmente si trova è dell’altro tipo.

Scusi se insisto ma a me colpisce il fatto che tutti questi autori narrino queste storie col bianco e nero, Da Giacomelli a Letizia Battaglia ai più giovani.

Da Giacomelli a Gardin, Pellegrin e Majoli usano questo bianco e nero ma rientra in una tradizione, sono autori che hanno quasi esclusivamente lavorato in quel modo, se questi lavori fossero a colori non cambierebbe poi tanto; ma forse solo una cosa c’è ed è il riferimento iconografico, diciamo che più originale e diverso era Giacomelli, perché non pensava al giornalismo, quindi le sue cose hanno un’altra funzione, ma poi io parlerei dell’equivoco: Da una parte è propio che se noi guardiamo l’immagine non come rappresentazione ma come racconto di qualcosa, ne siamo vittime e non la capiamo, per capire un’immagine, specialmente fotografica, bisogna astrarsi dall’idea che sia una fotografia, ossia che questa attinenza meccanica col reale abbia un qualche valore, in realtà chi fa la fotografia sa che questo non esiste. Ma i fruitori della fotografia sono vittime di questo equivoco che, se vogliamo è molto banale, però è ancora attuale. Quindi se noi pensiamo a quelle immagini come un racconto, osservando quello che c’è, non capiamo. Dobbiamo pensare alla rappresentazione, e qui il discorso diventa interessante, perché quelle immagini sono stereotipate, cioè tutti i fotografi fanno le stesse cose, tant’è che guardando quelle dell’Espresso dicevo: “Ma questa non le aveva già fatta coso, non le aveva fatta quell’altro?” Sono cioè intercambiabili; da una parte c’è il discorso di confermare il noto, reiterando l’immagine che già esiste, dall’altra è un discorso politico di controllo dell’immaginario che avviene dando un valore particolare alla tradizione iconografica e un’immagine si trasforma in genere. Uno fa un’immagine, funziona per qualche motivo, e così viene ripetuta come un manierismo in pittura e diventa un codice, priva di un suo significato particolare al punto che non se ne distingue l’autore perché diventa un esercizio di genere. C’è un’idea del malato di mente in una certa maniera e quindi ci sono le contratture innaturali del corpo, la sporcizia, il disordine e tutta una serie di elementi che vengono ripetuti. Molto interessanti poi sono le espressioni, che vengono fotografate, e che non sono fisse ma quasi una cosa teatrale; c’è una teatralità codificata con origini antichissime che partono dalle statue satiriche dell’antica Roma, come fosse quasi un discorso lombrosiano, quindi di legare ad una certa mimica certi significati. D’altra parte fa proprio parte della storia della tradizione del teatro e non ci si preoccupa di farne dell’altra, e pertanto questa rappresentazione aliena l’alienato, lo confina in un mondo che già sappiamo e di cui conosciamo l’immagine ma non sappiamo altro. In verità chi lo conosce sa che è falsa, ma per farlo ci si deve interessare per capire come stanno le cose. E qui viene il discorso del potere delle immagini, e in particolare della fotografia, ossia che ci si ferma all’immagine e letteralmente alla superficie della cose. E fermarsi all’immagine sarebbe già un passo avanti; in realtà l’utente che guarda le fotografie non guarda nemmeno l’immagine, non la sa guardare e c’è solo una reazione emotiva stuzzicata dalle solite corde, non c’è nella proposta dell’immagine fotografica nessun tentativo di voler far capire la realtà attraverso di lei, c’è solo l’idea di dare un’emozione, un leggero turbamento da ricevere comodamente in salotto, senza far nulla; che ha poi la funzione di trasformare l’immagine in un linguaggio e farne quindi un’immagine ripetitiva, con una funzione consolatoria anestetizzante. Inquadriamo queste cose per quello che sono, osserviamo il fatto che se le hanno fatte Berengo, Majoli, Claudio Cricca o altri non le distingui, perché ripetono un cliché.

Diceva che Giacomelli era un po’ diverso?

Giacomelli non aveva l’intento di fare un libro sulla brutta condizione dei matti, molte delle sue immagini poi sono più con persone affette da demenza che pazzi. Giacomelli aveva una sua ricerca estetica su maschere di dolore, non c’è un intento narrativo su dove stanno questi o perché.

Guardando questi lavori mi viene in mente sempre la foto che fece Gardin con Basaglia e la sua equipe in cui inquadra il mazzo di chiavi delle stanze al passante del pantalone tagliando fuori dall’inquadratura le teste. Non c’è mai il personale in questi lavori.

Io qualcosa qua e là con i medici lo ricordo ma certamente non sono protagonisti. Questo sembrerebbe assolvere queste immagini denunciandone un’assenza (dei medici) ma non è così. È un’omissione tendenziosa, ma può essere una scelta di editing, considerando i limiti di spazio che ha il photoeditor e il tipo di racconto che andrà a fare sempre con idee precostituite. Forse nel lavoro di Claudio Cricca nei manicomi criminali qualcosa del personale c’è. Molto estetizzanti e stereotipate, un po’ come quelle di Majoli che vengono dopo e che quindi si capisce che ha copiato Cricca.

Ma il problema è che le immagini sempre uguali in realtà allontanano il pubblico; e poi c’è molta passività sulle immagini da parte delle persone, e un’immagine sempre reiterata crea passività. La passività esiste a prescindere, non siamo reattivi di fronte all’immagine e questo viene fuori dalla religione.

Si tratta di un’immagine svuotata?

Certo perché il contenuto è a prescindere dall’immagine, si venera la crocetta ma non importa che sia un bel Cristo in croce, sono contenuti che già tu conosci e quello non è altro che un feticcio evocativo, un’icona, e viene guardata sempre così. La passività di fronte all’immagine viene fuori dall’educazione religiosa quindi con tutto il “da dire” già detto; non c’è nessun investimento verso l’immagine, e questo è terribile ma la realtà è questa.

Le persone non vedono le fotografie, sentono una sensazione, un’emozione ma non c’è pensiero, c’è perlopiù una reazione e ci si ferma lì.

Nel caso di queste immagini il pensiero già esiste prima, parliamo degli alienati ma è come se avessero solo un altro titolo.

Come una preghiera, un mantra che si ripete per gli occhi?

Esattamente.  

Intervista e Foto di Filippo Trojano. 2022. Un momento dello spettacolo Naturae, diretto da Armando Punzo andato in scena nel carcere di Volterra dove da oltre trent’anni viene portato avanti il progetto teatrale con i detenuti della Compagnia della Fortezza.