Il caso D’Onofrio è il più grave scandalo arbitrale di sempre. Preceduto – come risonanza, non come sostanza – dalla decisione assunta dalla Federcalcio fra il 1955 e il 1959 di far arbitrare le partite del campionato da fischietti stranieri: 13 austriaci, 5 francesi, 3 jugoslavi, un greco e un turco. Ricordo che fu una solenne buffonata con alcuni fischietti esotici che arbitravano in base alla schedina del Totocalcio che avevano giocato.
Fu una follia ma nonostante tutto in buonafede. Mentre oggi ci troviamo davanti a una vicenda che squalifica il mondo arbitrale nel momento in cui ci si sorprende degli errori della Var. Ci si chiede come sia stato possibile arruolare come procuratore arbitrale – giudice dei giudici – una persona già implicata in una problematica vicenda durante la sua appartenenza all’Esercito Italiano come ufficiale medico, qualifica smentita. Poi è stato arruolato dall’Aia mentre scontava una condanna per traffico di droga, fino a ricevere attestati di fiducia e il premio Lo Bello mentre era agli arresti domiciliari con licenza di movimenti proprio nella sua veste di procuratore.
Nessuno sapeva, nessuno era responsabile della sua nomina – si dice oggi -. Secondo l’antica norma “chi controllerà i controllori?” oggi sappiamo la risposta: la Guardia di Finanza che ha scoperto e arrestato il trafficante di droga. Fortuna vuole che sia stata scoperta anche l’inesistente funzione del settore arbitrale che dovrebbe garantire la trasparenza e la pulizia morale del calcio italiano. Niente arresti, in questo caso, ma opere di bene.
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