Amatori Palermo vs Iron Team 26 a 3 e la teoria dei bioritmi

Ci sono cose che non posso descrivere, dovete soltanto viverle. Come faccio a descrivere tutti i significati e le funzioni del numero 33?

di Filippo La Torre

Palermo, 14 Apr. – Ci sono cose che non posso descrivere, dovete soltanto viverle. Come faccio a descrivere tutti i significati e le funzioni del numero 33?

Posso dirvi che é il numero atomico dell’arsenico, come anche la temperatura di ebollizione dell’acqua secondo la Scala di Newton e per non tediare ulteriormente i miei sparuti lettori, mi fermo a queste mie misere conoscenze e vi rimando su internet, dove il numero 33 gode di alta notorietà e importanza. Mi limito ancora a dire che 33 è anche il massimo di vita terrena raggiunto da Gesù il Cristo, ma io non sto scrivendo dalla Galilea, ma dalla Zona Espansione Nord di Palermo, universalmente conosciuta come ZEN. E tra tanti pensieri che arrovellano i miei cabbasisi, perché questo numero 33 mi sta tribolando e impegna la mia mente dalle 14:45 di oggi?

Forse perché la colpa, a loro insaputa, perché sono già belli morti e sepolti, è dei professori Hermann Swoboda e Wilhelm Fliess: il primo era docente di Psicologia all’Università di Vienna ed il secondo un noto biologo di Berlino.

Questi, nella loro teoria dei bioritmi, si permisero di affermare che il ciclo Intellettuale dura 33 giorni e influenza la logica, il ragionamento, la perspicacia, la vivacità mentale.

E’ successo alle ore 14,45 di oggi al Velodromo e Borsellino, campo di rugby dalla gloria ormai appannata e dai gradoni in cemento che mai serviranno per la discesa di Gloria Swanson anche se sulla via del tramonto.

Ha fatto il suo ingresso in campo un bimbetto con sulle spalle il numero 33. Pensai subito: – “Vanitoso, tu non superi i 33 chili, con quelle coscette a friscaletto dalle cartilagini incomplete e le braccine prese in prestito all’ossario dei Cappuccini!”.

Ma tra i miei pensieri c’era il ricordo, arido e immemore, della teoria dei bioritmi, che all’improvviso riaffiorò tacciandomi di superbia. Il bambino, biondo come si conviene a un novello vikingo, prende posizione a mediano di apertura e nei pochi minuti della sua permanenza in campo, circa quindici non di più, mi ha portato a vette eccelse di godimento.

Per ben due volte ha fermato la corsa di un panzer con il numero 8 sulla schiena senza l’ausilio di mine magnetiche, ma immolando le sue povere membra tra i cingoli oliati di umano sudore; ha recuperato nella sua 22 una subdola palla calciata dal numero 10 avversario, inseguita da famelici predatori il 12 e il 13 in avanguardia, e il 6 e il 7 a copertura.

E’ finita, pensai. I levrieri e i corsi dilanieranno le tenere carni e ne faranno pasto. Quanto ho odiato, in quegli istanti, la caccia alla volpe condita d’ipocrite tradizioni e di perbenismo vittoriano. Ma oggi la storia dirà altre cose e il nostro mediano non sarà preda.

Il 12 già sbava, sente il sapore del sangue irrorargli la gola, è pronto ad azzannare, ma il nostro 10 per un breve attimo, forse memore della sua fragilità, sembra rinchiudersi in se stesso, poi scatta in avanti come una molla togliendo il tempo al predatore incauto.

Ferma nuovamente la sua corsa e il suo corpo sembra ondeggiare come il pendolo dell’illusionista e il 13 ne subisce la magica malia. Adesso il nostro mediano è fuori dalla 22, ha tempo e spazio per liberarsi di un fardello che si va facendo sempre più pesante ma, spinto da un atavico senso della sfida e confidante in Odino, beffardamente affronta i due rimasti predatori, li attira su di sé, si incunea in mezzo alle loro massicce spalle liberando, mentre va a terra, il pallone nelle mani del nostro estremo che, in piena libertà, libera in touche.

Avevamo assistito a una lunga sequenza di movimenti eleganti, il nostro fiato era sospeso e colmo di ammirazione e la domanda mi ritornava: Perché il numero 33?

Gli applausi provenivano anche dalla panchina avversaria e mi hanno dato l’impressione che fossero un segno di resa: “Anche gli angeli contro!”, avranno pensato.

Non si rivolteranno nelle loro tombe Hermann Swoboda e Wilhelm Fliess perché li ho riportati alla memoria.
Anzi, ove possibile, farebbero salti di gioia. La loro teoria, contestata e confutata alla luce di moderne acquisizioni scientifiche, oggi ha trovato piena applicazione.

Un ragazzino, con il numero 33 sulla propria maglia, ha felicemente coniugato i tre aspetti fondamentali del nostro essere, ovvero quello fisico, emotivo e intellettivo.