Abolizione delle province. Il punto
di Sergio Paternostro
Il tema dell’abolizione delle province siciliane ha destato un ampio dibattito su cui e’ il caso di ritornare con un approfondimento in grado di chiarire alcuni…
di Sergio Paternostro
Palermo 25 Marzo – Il tema dell’abolizione delle province siciliane ha destato un ampio dibattito su cui è il caso di ritornare con un approfondimento in grado di chiarire alcuni aspetti di carattere prettamente economico. La motivazione che, anche a livello nazionale, ha creato del tema in questione un vessillo della lotta ai privilegi e uno dei punti cardine dei fautori della riduzione dei costi della politica è stata proprio l’idea che le spese relative alle province fossero da considerare inutili e in quanto tali uno spreco insostenibile. Prima di parlare del caso Sicilia alcuni dati nazionali.
A livello nazionale, l’incidenza del costo delle province è circa l’1,35% della spesa complessiva del paese.
I compensi di eletti e amministratori ammontano a circa 104 milioni di euro, su un totale di circa 1 miliardo e 900 milioni relativo al complesso di tutti i livelli istituzionali (Parlamento, Regioni e Comuni).
Come si vede, si tratta di cifre significative in senso assoluto da cui si potrebbero drenare risorse da utilizzare in maniera più produttiva ma, in senso relativo, il loro peso sul complesso della spesa pubblica è tutto sommato marginale.
A livello regionale la Sicilia, con un intervento che ha avuto un grande richiamo a livello nazionale, ha deciso di abolire le province che saranno sostituite da liberi consorzi di Comuni, che dovranno essere regolamentati entro il 31 dicembre di quest’anno.
Pochi sanno, e pochissimi hanno fatto notare, che lo Statuto della Regione Siciliana, all’art. 15, prevede già la presenza dei liberi consorzi di Comuni: “Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione Siciliana. L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. Nel quadro di tali principi generali spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali”.
Così recita lo Statuto in uno dei tanti articoli dimenticati. In più, la legge regionale del 19 Maggio 2005 all’art.34 recita: “1. La Regione favorisce e sostiene la costituzione di consorzi, unioni e fusioni di comuni e di province, ai sensi della legislazione vigente in materia di enti locali. 2. Dopo il comma 4 dell’articolo 76 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2, è aggiunto il seguente: 4 bis. Un’ulteriore quota, pari al 5 per cento delle risorse di cui al comma 1, rimane nelle disponibilità dell’Assessore regionale per la famiglia, le politiche sociali e le autonomie locali per essere attribuita, sotto forma di contributi straordinari finalizzati, in aggiunta ai benefici concessi dallo Stato, alla promozione ed alla realizzazione di consorzi, unioni e fusioni di province”.
Come si nota, in realtà, nel nostro ordinamento i liberi consorzi di Comuni non sono una novità, seppur nella pratica non abbiano trovato reale e completa applicazione. Veniamo ai costi.
Come già detto, i costi che sicuramente verranno risparmiati sono quelli relativi alle elezioni: circa 10 milioni di euro. Il resto? Nel 2012 la spesa delle province è stata di circa 600 milioni di euro su un totale di spesa regionale di circa 9 miliardi di euro. Quello che viene chiamato il costo della politica (indennità e rimborsi a eletti ed amministratori) ammonta a circa 17 milioni di Euro.
Crocetta ha calcolato un risparmio nell’ordine dei 10 milioni in questa voce. Non si saranno più i consiglieri provinciali, mentre gli amministratori dei consorzi è ipotizzabile abbiano indennità inferiori (di molto) alle attuale essendo amministratori che hanno già incarichi presso i comuni.
I costi per il personale ammontano a circa a 200 milioni di euro. Si tratta di circa il 44% della spesa corrente contro un dato nazionale che è di circa il 25% evidenziando una decisa inefficienza amministrativa degli enti aboliti. Il personale verrà riassorbito tra comuni e regioni non comportando alcuni risparmio in termini di costo.
C’è da notare la vicenda dei “precari” titolari di contratti a tempo determinato: la questione è controversa ma Il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, indica che “quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.
Anche su questa questione sarà interessante vedere gli sviluppi. Poi ci sono le spese relative alle funzioni delle province: edilizia scolastica, funzionamento delle scuole, formazione professionale, mobilità e trasporti, gestione del territorio, viabilità, tutela ambientale, sviluppo economico, promozione della cultura, promozione del turismo e dello sport, politiche sociali. Difficile stabilire quante di queste spese siano duplicati e quindi vadano eliminate, quante vadano interamente attribuite ai comuni o alla regione senza alcun risparmio, e quante possano essere razionalizzate (penso soprattutto alla promozione della cultura, del turismo e politiche sociali).
Poi ci sono i 315 milioni di euro di spese generali di gestione (utenze, ragioneria, avvocatura, etc.) relative alla gestione del patrimonio dell’ente. Qui tutto dipende da quanti saranno e come saranno organizzati i consorzi.
Si spera che si decida per strutture snelle e non una duplicazione dei vecchi carrozzoni utili solo a riciclare politici difficilmente piazzabili in altri ambiti. Due questioni a parte riguardano debiti e società partecipate. Le province hanno 338 milioni circa di indebitamento: il rimborso andrebbe a ricadere sul patto di stabilità della Regione? Questo sarebbe un problema, vista la situazione al limite in cui si trova la situazione finanziaria regionale.
Per quanto riguarda le società partecipate dalle 9 province siciliane esse sono ben 112 (a fronte di 52 partecipazioni per i comuni e circa 206 per la regione) e ben 63 sono in perdita. Che farne di queste partecipate? Occorre verificare quante di esse siano davvero funzionali all’interesse collettivo e quante invece drenino risorse in maniera improduttiva. Anche da uno sguardo sommario a queste partecipazioni (può essere fatto facilmente collegandosi con i siti delle diverse province) si intuisce che alcune di esse non sono giustificabili né da un punto di vista economico né da un punto di vista sociale.
In sintesi, se si pensa che le province siciliane hanno generato un disavanzo di 34 milioni di euro, se si pensa al loro livello di indebitamento e se si pensa al ritorno percepito dai cittadini delle loro politiche (francamente molto deludente), esse sono sicuramente molto lontane dall’essere esempi di buon governo.
Al di là dello strumento prescelto, l’abolizione delle province e la creazione dei consorzi, l’occasione che si presenta è davvero unica: quella di ripensare in maniera globale all’intero sistema della spesa pubblica regionale cercando di ottimizzare le risorse a disposizione a vantaggio di servizi per i cittadini.
Occorre una seria, responsabile e puntigliosa spending review atta a verificare, caso per caso, quali spese siano realmente improduttive e quali siano invece funzionali per offrire migliore servizi ai cittadini e una regolamentazione dei consorzi che non sia una duplicazione sotto altra veste dei vecchi schemi.
In tal senso il metodo dei tagli lineari, finora principalmente applicato anche a livello nazionale, è risultato perdente, non in grado di individuare le reali inefficienze, tagliando laddove non era consigliabile farlo.
L’operazione non appare affatto facile, ma il momento storico sembra suggerire questa direzione nella consapevolezza che, forse, questo è l’ultimo treno per dare una svolta alla nostra martoriata regione.
Non perdiamolo perché sarebbe questo si uno spreco assolutamente intollerabile.
Nota: i dati citati nell’articolo provengono dalla banca dati Siope del Ministero del Tesoro e da dati della Corte dei Conti.