PALERMO (ITALPRESS) – Un martire della giustizia. Magistrato probo, coraggioso, spinto dai grandi valori trasmessi dalla famiglia, ligio alla rettitudine e sorretto da una fede profondissima, capace, secondo le carte raccolte nel processo di beatificazione, di avere compiuto dopo la morte due miracoli.
La vita di Rosario Livatino – ucciso 32 anni fa dalla mafia nelle campagne di Agrigento, definito giudice ‘ragazzinò per la sua giovane età e per il coraggio misto ad una esperienza davvero inusuale a dispetto dell’età – è stata e rimane ancora una testimonianza di impegno civico, di aderenza ai valori della Costituzione, di profondo amore verso la legalità.
Una carriera fulminante la sua. Cresciuto in una Canicattì intorbidita dagli interessi mafiosi, nel 1975, a 23 anni si laurea in Giurisprudenza a Palermo. Tre anni dopo il suo ingresso in magistratura: prima tappa Caltanissetta, poi Agrigento.
In poco più di un decennio ha combattuto le varie consorterie criminali della provincia, concentrando il suo impegno verso la nascente e temibilissima ‘Stiddà, gruppo attivo in quel lembo di terra che si affaccia sul canale di Sicilia, da Agrigento a Gela.
Fu la ‘Stiddà a decidere di eliminarlo. Era il 21 settembre del 1990.
Come tutte le mattine, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta color amaranto, senza alcun agente di scorta a difenderlo, stava raggiungendo Agrigento da Canicattì lungo la strada statale 640.
Al chilometro 10 la Fiesta fu speronata dall’auto del commando formato da quattro killer.
Livatino cercò riparo lanciandosi nella scarpata. Una fuga disperata e inutile: i sicari lo braccarono e lo uccisero senza pietà, lasciandolo a terra, inerme, in una pozza di sangue. Fu l’atto finale della vita di un servitore dello Stato, massacrato in mezzo al nulla, nella campagna brulla di fine estate.
Proprio lì, oggi una stele, attorniata dalle erbacce e isolata rispetto al nuovo tracciato della Caltanissetta-Agrigento, ne ricorda il sacrificio.
Dell’omicidio fu testimone Pietro Nava, un imprenditore lombardo rappresentante di porte blindate. Le sue dichiarazioni, affidate ai magistrati che indagarono sulla morte del giudice, si rivelarono utilissime per chiudere il cerchio attorno ai killer, che furono arrestati. Uno di essi, Gaetano Puzzangaro, ‘picciottò della famiglia di Palma di Montechiaro, dopo essersi pentito e convertito, in questi anni ha dato un contributo importante alla causa di beatificazione di Livatino.
Processo di beatificazione avviato nella sua fase diocesana nel 2011 a firma dell’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro e che si è concluso nel 2018 con l’invio di quattromila pagine, tra testimonianze e ricostruzioni, alla Congregazione delle cause dei Santi. Tra i miracoli attribuiti a Livatino due prodigi che sarebbero avvenuti con la sua intercessione su due donne, entrambe colpite dalla leucemia e successivamente guarite.
Rosario Livatino non è quindi soltanto un martire della giustizia perchè vittima della vile mano assassina della criminalità, ma è stato quel giudice cresciuto con dei saldissimi valori in una Canicattì gravata dal controllo di Cosa Nostra, che ha inteso la giustizia secondo quel concetto cristiano che considera gli uomini retti dei ‘giustì. Livatino è stato un “giudice ragazzino” che ha pagato con la sua esistenza la battaglia per liberare la sua Sicilia dall’abbraccio mortale della mafia.
Livatino ieri sera è stato ricordato con una veglia nella chiesa San Domenico e davanti la “Casa Famiglia Livatino”, a Canicattì.
Oggi sempre nella Chiesa San Domenico sarà celebrata una funzione religiosa. Poi, un omaggio alla stele fatta erigere dai genitori in ricordo del loro unico figlio.
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