La passione e il coraggio, il racconto inedito di Cristina Fava

Poliziamoderna, in uscita oggi, dedica un’ampio servizio alle figure femminili che sono diventate simbolo dell’antimafia in occasione della festa della donne e della giornata del ricordo delle vittime della mafia del 21 marzo.

Tra queste, Cristina Fava, funzionario della Polizia di Stato a Genova, che racconta per la prima volta del nonno, Giuseppe Fava, il giornalista ucciso in un agguato mafioso, il 5 gennaio 1984, dopo essere uscito dalla redazione del suo giornale “I Siciliani”. Cristina è commissario capo, e da due anni ricopre l’incarico di vice dirigente all’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico a Genova. Di seguito riportiamo l’intervista di Antonella Fabiani, realizzata per Poliziamoderna, in cui parla con trasporto ed emozione per la prima volta della sua famiglia, di sua zia Elena e di come la scelta di entrare in polizia sia il proseguimento della strada iniziata da suo nonno per praticare i valori della legalità e della giustizia.

Suo nonno ha pagato con la vita la scelta di mettersi contro la mafia attraverso l’attività di giornalista. La scelta di entrare in polizia è stata condizionata dalla sua vicenda?
«Sì, la mia scelta di entrare in polizia è stata condizionata da questo evento. Tutta la mia vita è stata influenzata dalla storia di mio nonno che è stata tramandata e portata avanti nella mia famiglia. Lui era un uomo di grandi ideali e passioni civili e con le sue scelte è riuscito a trasmetterci un grande senso di giustizia, l’importanza dei valori della legalità. Sono tutti elementi che inevitabilmente hanno influenzato le mie scelte professionali. L’idea di diventare poliziotta è maturata nel tempo e ora penso che sia il mestiere più bello del mondo».

Cosa ricorda di suo nonno?
«Avevo pochissimi mesi e non ho ricordi diretti, ma so che era molto legato a me che ero la più piccola. Nonostante fosse molto impegnato, è stato sempre molto presente in famiglia, non c’è stata una partita di pallanuoto di mio padre che non sia andato a vedere. Per lui l’impegno nello sport e nello studio erano fondamentali. Su questo non transigeva e poi amava viaggiare, il teatro, l’opera. Era una persona molto ironica e amava molto la vita ed era legatissimo ai figli e a noi nipoti. Anche quando aveva capito che stava rischiando non ha mai lasciato trapelare nulla, tornava a casa sempre sorridente. In realtà sapeva quello che poi sarebbe accaduto, ma non ha mai fatto percepire questo suo timore in casa».

Sua zia Elena ha contribuito molto alla diffusione del ricordo del padre attraverso numerose battaglie civili. Come la ricorda?
«Mia zia per me è stata come una madre, io sono cresciuta con lei e le mie cugine. È stato il pilastro della mia famiglia perché era una donna fortissima e il suo grande pregio è stato quello di riuscire a trasformare un evento drammatico come quello dell’uccisione del padre in un impegno di vita, una missione, che lei ha svolto con un amore e una solarità che le ha consentito di tramandare la storia della nostra famiglia, della nostra città e quello che ha fatto mio nonno a moltissimi giovani di tutta Italia. Tenendo conto che non è facile parlare ai ragazzi che vivono a Bolzano di quello che succede a Catania, lei invece, riusciva perché era una donna molto empatica e non parlava di suo padre come di un eroe, ma di un uomo che con grande coraggio ha tentato di far aprire gli occhi a una città completamente in ginocchio, soprattutto in quegli anni. E questo lo ha fatto mia zia con immenso amore e mai con vittimismo».

Sua zia è riuscita a far intitolare a Catania una targa a Giuseppe Fava e nel 2007 a istituire un premio nazionale.
«Per lei è stato fondamentale questo premio contro le mafie a cui partecipano molti giornalisti impegnanti nella scrittura d’inchiesta. Un altro successo è stato di poter coinvolgere anche le scuole. I ragazzi raccontano delle storie che sono molto attuali perché riguardano le loro città».

Qual è secondo lei il contributo che le donne possono dare nella lotta contro la mafia a favore di una cultura di legalità?
«Credo che le donne abbiano una sensibilità diversa, una capacità di amore e soprattutto una consapevolezza di sé e della realtà che le circonda che consente loro di portare avanti i propri ideali in modo diverso da quello maschile. Noi donne siamo generalmente più sensibili e concrete e questo si tramuta in un maggiore impegno nelle cose che facciamo. Oggigiorno molte hanno raggiunto posizioni apicali, anche in senso negativo. Nelle organizzazioni criminali occupano ruoli importantissimi e gestiscono imperi quando i loro uomini si trovano in galera.
Penso che bisognerebbe cercare di dare loro un’alternativa, tirarle fuori insieme ai loro figli. Fare comprendere che c’è la possibilità di una vita diversa. Questo sarebbe un grande intervento perché le donne nella mafia hanno un ruolo centrale».

Suo nonno è stato ucciso nel 1984, sono passati 33 anni. Il fronte mafioso è rimasto uguale o qualcosa è cambiato?
«Le cose sono un po’ mutate ma c’è ancora tanto da fare. Il problema è cambiare la testa delle persone. Bisogna insegnare alla gente a innamorarsi della propria terra, del proprio Paese, a non occuparsi solo del proprio giardino. Cambiare la mentalità per fare sì che la gente si innamori di ciò che è suo, che è nostro alla fine di tutto. E in questo è importante partire dai più giovani».

 

Fonte Poliziamoderna